e sfoggiano criniere di galena, intagliate
con scrupolo. I loro occhi sono tracce
cuneiformi di palinsesti e programmi
seriali, costellati di insuccessi e di bachi.
Le loro fauci grondano scansioni criptate
intanto che le periferiche dei nostri volti sono
allineate per dimensioni di globuli bianchi
e anticorpi. Sembra che attendano di sfigurarsi
in apparizioni, sostituirsi ai neuroni,
alle braccia, alle mani, convogliare
le nostre visioni in dispositivi di protezione,
integrarsi nelle rientranze molli dei nostri corpi,
superare ogni scissione con cognizione di causa,
liberarci dall'agonia della crepa, della frattura
dei bordi, dai limiti della memoria
***
È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d'arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.
Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?
***
La progressione del grigio è compiuta
- guarda - il nervo ottico è un ingranaggio
larvale, frastagliato e composito: ora possiamo
osservare in uno schermo HD il simulacro
delle nostre esistenze, scrollarci di dosso
lo strappo della nascita, in modalità multifocale
scrutare attentamente lo spettro luminoso
delle nostre cellule e scremarle
affinché la lattescenza in nuce prenda congedo:
nella qualità del nero stiamo acquattati
a fissare su lamine le distorsioni impresse
al movimento ondulatorio, siamo
in contemplazione di noi, dei nostri
riflessi che rimbombano. Un giorno
non ci ricorderemo più il senso
dell'orizzonte, il morso del cielo
e la sua traccia turchina sulla retina.