di questo stagno inospitale, chiedo
all'imprecisa retta dell'orizzonte
se sia giusto essere stanchi
di quel che si ha o si ama,
se è meglio tenere la tristezza per sé
perché nessuno ha mosso
le acque, nessuno è più riemerso
dal fondale petroso dove non arriva
luce e non c'è vegetazione ma solo
la palude ferma, severa cavità
di un terreno franato
scomparso come noi siamo.
***
Qui tra le geometrie abbandonate dei palazzi
abita da giorni un battito che corre veloce
oltre gli archi, gioca a nascondino con gli angoli
e si propaga, cerchio perfetto, senza modificare
lo spazio: è ancora questa voce afona che dice
amanhā, amanhā, non c'è più fretta, respirano
larghe le mura ci invitano alla vita, all'aprire solo
un'ultima volta le valigie, a posarsi con la guancia
sul freddo cemento grosso che non traspira,
ad accendere fuoco e vino sopra le fronti di resina,
ad amarti il tempo di dimenticare questa nostalgia,
a gridare oltre le cime dei tetti famiglia, legno, sonno.
***
Per due giorni il vento ha cercato l'entrata
delle nostre tane, senza fermarsi, notte
e giorno un unico grido tra le ante, la stessa
elemosina pretesa con una lingua sconosciuta
che non conosce traduzione ma solo spavento:
è straniero il tuo silenzio dopo lo schianto
del vaso sopra il davanzale, è una cosa
che si crepa dentro le spire del grecale,
come le gambe gracili si frantumano
dentro gli spilli dei dissuasori e poi servono
anni di orrore di ricostruzione, carezze
e riposo per assorbire il trauma, per attrarlo
dentro un'altra faccia con altri occhi,
che non sono più i tuoi.