La polvere sa essere estremamente convincente, la sua ragione ha fatto riflettere dall’inizio dei tempi migliaia di uomini e migliaia di poeti ne hanno scritto nel corso dei secoli. La polvere ha sempre l’ultima parola, resta e si impadronisce delle case e degli oggetti quando i loro proprietari non ci sono più. A lei dedica le sue parole versificate anche Pizzolitto, in riflessioni esistenziali, poste con cura e perizia al di fuori del tempo. La caducità della vita, l’impermanenza della felicità, l’istante che riempie di meraviglia, che illude sulla sua possibile continuazione e poi si perde inevitabilmente nel rivolo dell’esistenza: questo l’assunto entro cui si muove la poesia di Pizzolitto.
Ho un Buddha nella posizione indicata come Bhumisparsha Mudra, su un tavolo rotondo cinese: ha dei lustrini sulla veste dorata che per un minuto al giorno, di pomeriggio, a seconda di come gira il sole, proiettano sui muri circostanti piccoli dischi di luce colorata. Per un minuto. Dopo questo momento glorioso torna l’ombra, la meditazione, l’oggettualità. Ma in quel minuto tutto sembra cantare. Così anche l’autore distende panorami di gravità ed enigmi la cui sicurezza ci ha sempre sconcertato, per contrapporre una breve pennellata di colore e di soavità:
Qualcosa resta in silenzio
e rimane nascosto
nel niente senza stelle
che ti riempie e consuma.
Anche in me attende
il vuoto straziante di Dio,
e questa ignobile,
mai sazia inquietudine.
Le api tracciano geometrie gioiose
tra i fiori di pesco e il cielo.
(Geometrie, p.10, vv. 1-10)
Questa poesia che medita sul mistero oscuro del nostro essere al mondo e dei sollievi istantanei che può offrire la natura intorno o una predisposizione effimera dell’anima, ha ascendenze remote, la Bibbia del Libro di Giobbe e l’Ecclesiaste, i mistici mussulmani, il grande poeta persiano Omar Khayyam che cantava lo stordimento come unica possibilità di sfuggire all’arbitrio del destino e al tiro di dadi di Dio. Emily Dickinson, naturalmente. In Italia questa lacerazione fra il dolore inesplicabile e certo della condizione umana e l’aspirazione alla consolazione dell’amore in purezza carnale, ha un suo forte testimone in Giovanni Testori.
Le parole in questo contesto non sono scelte come segno arbitrario, diversamente interpretabile dal lettore, ma circoscrivono un’esperienza comune e sono essenziali come una sentenza.
Stupende sono queste grida
che smembrano la notte,
stupendo è tutto ciò che sopravvive
all’affanno scarno delle cose,
la luce austera del mese di marzo,
nel niente colmo di misericordia
di un nuovo, disperato silenzio.
Dura un istante questa misera gioia.
(Dura un istante, p.13)
Anche il repertorio metaforico scelto dell’autore attinge a un repertorio in cui ciascuno di noi può riconoscersi. Sia che ci si accosti al mistero con spirito religioso o laico, resta comunque un paradigma di immagini che unisce la sensibilità della tradizione giudaica cristiana a quella orientale.
Io sono la foglia piegata
dalla brezza leggera,
io sono il sale sulla ferita,
io sono questo affannato correre
e morire.
La quiete di un istante,
nell’accadere del nulla.
(p.27)
Interessante è capire se i grani del rosario si snodano fra le dita sempre uguali oppure se questa smisurata invocazione, abbia un’evoluzione tra le sue varie parti. L’ora scandita è sempre la stessa, sempre questa misura mai colmata di pazienza da opporre all’assenza di un senso, oppure c’è in questa poesia un passaggio dall’ombra alla luce, dalla notte al giorno?
Nei silenzi impossibili
nella bianca innocenza
di una preghiera sussurrata.
Tutto è instabile e arde,
arde d’amore.
Tutto cade inesorabile
e si fa nostalgia.
(p.47)
Il libro ha varie sezioni, “Spasmi”, “Noi che abbiamo perso la fame”, “Dal profondo”, “Benedizioni” che contrappongono fin dai titoli questa polarità incessante fra l’angoscia e la trafittura del sole che ci ci inebria nonostante la sofferenza del nostro esserci. Ma è l’ultima sezione che insiste maggiormente sulla necessità di riconoscere nelle ferite dell’altro le proprie e nell’aprirsi dunque allo spirito della comprensione e della compassione. Fra tutte le figure create da Dostoevskij, una mi è particolarmente cara ed è quella tratteggiata nella figura del principe Miškyn, nel romanzo “L’idiota”. L’ultima sezione titolata da Pizzolitto PREKRASNYJ (LO SPLENDORE DELLA BELLEZZA), proprio questo personaggio richiama come orizzonte ultimo di riflessione e di possibile azione. In una sua lettera il grande scrittore russo, a proposito del suo progetto, usa questo termine per indicare l’uomo ‘assolutamente buono’ che dovrebbe essere protagonista del suo romanzo. Il modello cristologico di cui parla Dostoevskij è una declinazione dell’idea dell’uomo virtuoso e bello della Grecia classica, in cui il dettame dell’armonia è stato incrinato dalla coscienza del dolore, ma questa incrinatura piuttosto che una limitazione, è un ampliamento che irradia appunto ulteriore bellezza. Ma la vocazione estrema di ad aprirsi a tutto il dolore degli uomini e a glorificarlo attraverso la sua condivisione, non può essere visto dagli altri che come follia. Ancora oggi, mentre le immagini della contemporaneità si uniscono a quelle di una fede che pare trascorsa, lo scandalo resta aperto, aperta resta la frattura tra l’io e il tu che ci chiama da un luogo diverso dal nostro, radicalmente diverso dalle nostre abitudini.
I panni stesi al sole ad asciugare,
il cane che dorme sul tappeto
comprato ieri su ebay,
il ramo d’ulivo appoggiato all’icona
di un Cristo scalzo e bambino:
questi silenzi che, nell’attesa,
si fanno volto e preghiera.
Tu provieni dal niente lontano.
(p.117)
Paolo Gera